La documentazione medica che ci è stata sottoposta qualche anno fa ci ha lasciato davvero senza parole.

E quanto accaduto alla signora M.E., vittima di un primo errore diagnostico in pronto soccorso a cui si sono accodati tutto il personale sanitario successivamente intervenuto.

La signora M.E., accusando un violento dolore all’addome, si reca presso il pronto soccorso dell’ospedale del suo paese, dopo 15 minuti di attesa viene visitata e senza eseguire alcun tipo di accertamento viene rinviata a casa con la diagnosi di colica addominale e con una prognosi di giorni 2.

L’indomani mattina, avvertendo sempre lo stesso malessere è costretta a ritornare presso il medesimo pronto soccorso. Il sanitario di turno leggendo il referto del giorno precedente conferma la diagnosi di colica ma, prescrive e fa effettuare un prelievo di sangue, ricevuti gli esami che non mostrano nulla di particolare, il pronto soccorso dimette la paziente.

Arriva la sera, e la signora sta talmente male che questa volta non riesce a recarsi in ospedale neanche con i mezzi propri ed è costretta a chiamare l’intervento del 118. Ricondotta per la terza volta presso il nosocomio locale, la signora M.E. viene dapprima sedata in pronto soccorso e poi ricoverata in chirurgia.

Solo dopo due giorni viene eseguito un banale esame ecografico che evidenzierà un’aneurisma addominale in fase di rottura. Prontamente, trasferita presso un ospedale di alta specializzazione cittadino, la povera donna verrà sottoposta ad un intervento salva vita le cui possibilità di successo, in quelle condizioni sono bassissime. I cardiochirurghi non riusciranno ad ultimare l’intervento dovendo constatare il decesso al tavolo operatorio.

Non vi è dubbio, cosi come riferitoci dai nostri esperti, che l’aneurisma addominale è una diagnosi importante. La tempestività della diagnosi, ma anche l’opportunità di una diagnosi, talvolta di tipo incidentale (ed in questo caso c’era tutta visto i molteplici accessi in p.s.), può far sì di trovare l’aneurisma ancora in una fase di fissurazione e, l’intervento chirurgico, può garantire al paziente importanti chances di sopravvivenza.

La nostra paziente non era sposata e non aveva figli, ma ha lasciato due fratelli e due sorelle che non si danno pace.

 Il dolore toracico, anche in un’età giovanile, è un sintomo che non va mai sottovalutato.

La moglie del sig. P.T., madre di due bambini piccoli, si è ritrovata vedova a soli 42 anni.

Il marito, operaio in un’azienda èdile e quindi sottoposto a lavori che richiedono sforzi eccessivi, mentre lavorava avverte dei fastidi al petto mai patiti in precedenza. Viene accompagnato presso il vicino pronto soccorso, li, la documentazione medica acquisita, ci evidenzia che il sig. P.T. venne sottoposto ad una terapia antidolorifica per via endovena, gli fu praticata una rx del torace e null’altro.

Come a volte accade, la giovane età di un ammalato, induce i sanitari a sottovalutare alcuni sintomi, non si preoccupano di raccogliere un’anamnesi accurata, conferendo a quell’acuzie una diagnosi non allarmante come ad esempio una lombosciatalgia.

Naturalmente, il povero operaio, rassicurato da una diagnosi benevola, fece rientro presso la propria abitazione ove, di lì a poco, i sanitari del 118 chiamati in urgenza non poterono fare altro che constatarne il decesso per un infarto acuto.

Ora, nel caso di specie, sarebbe bastato eseguire un ecg, fare un prelievo del sangue per controllare gli enzimi cardiaci e trattenere il paziente in osservazione. Anche l’osservazione del paziente è fondamentale per salvare una vita umana in questi casi, in quanto possono anche esserci dei falsi negativi ai primi prelievi tanto è vero che essi vanno ripetuti a distanza di qualche ora. Una diagnosi infartuale tempestiva avrebbe consentito l’immediata terapia farmacologica o nei casi più importanti l’esecuzione di una coronografia. Tutto ciò è mancato e la liquidazione economica ricevuta dalla famiglia non potrà mai restituire alla giovane moglie e ai due minori l’affetto della figura paterna.

 

..."Quando abbiamo incontrato i familiari del sig. V.R., la prima cosa che ci hanno riferito e che il loro caro era felicissimo di sottoporsi a quell’intervento in una clinica casertana. Era desideroso di perdere peso per ritornare a condurre una vita normale.

Invece, dopo 5 giorni dall’intervento laparoscopico per la riduzione dello stomaco, nella più totale incredulità da parte dei familiari, si verificò il decesso inaspettatamente.

Gli specialisti di questa materia da noi consultati, hanno dapprima verificato l’anamnesi patologica remota e quella prossima del paziente. Questa disamina ha consentito di rilevare che il paziente era in ottime condizioni fisiche e la consulenza anestesiologica aveva autorizzato l’intervento indicandolo in un’asa 2.

In pratica è accaduto che durante le manovre laparoscopiche, i trocar avevano lesionato la milza rimasta però misconosciuta al tavolo operatorio.

Ne derivò, nei giorni successivi, la caduta dell’emoglobina, una cospicua perdita dei globuli rossi e cominciarono problemi respiratori.

Ancora oggi i familiari (e per la verità anche noi) non si capacitano come un quadro di tale gravità mai fu attenzionato dai sanitari. Basti pensare che un esame tac per verificare gli organi interni fu effettuato solo il giorno del decesso.

Sarebbe bastata un’ecografia già nell’immediato post operatorio per una verifica della cavità addominale, si sarebbe rilevata la lesione interna a cui era possibile porvi rimedio attraverso una splenectomia.

I nostri assistiti hanno ottenuto un importante risarcimento ma, una parte di esso l’hanno devoluto in beneficenza ad un ospedale pediatrico.

Anche in assenza di un riscontro autoptico, dalla tua parte, attraverso uno studio multidisciplinare, è riuscita a fare chiarezza sulle cause di questo misterioso decesso.

La sig.ra A.P., Che aveva da poco compiuto 59 anni, iniziò ad avere delle perdite ematiche vaginali e bruciore minzionale. Ricoverata presso un noto e specializzato ospedale napoletano, venne sottoposta ad alcuni accertamenti specifici, quali una ecografia ed una cistoscopia. Sulla scorta dei predetti esami, i sanitari si convinsero che la paziente fosse affetta da una neoplasia vescicale e decisero di sottoporla ad una turv, ossia la resezione della vescica per l’analisi istologica.

Purtroppo, i familiari, in trepida attesa fuori la sala operatoria, appresero dal chirurgo che alla prima manovra chirurgica si era presentata una massiva emorragia e comunque era riuscito a portare a termine l’intervento con l’invio della paziente in terapia intensiva a scopo precauzionale.

Dopo 7 giorni in rianimazione la paziente morì.

Ebbene, i familiari, non avendo ottenuto dal personale medico precise informazioni sulle cause del decesso, ci hanno contattato per scoprire la verità.

Quel che è certo e che la procedura di turv bioptica, eseguita in anestesia generale dopo esame cistoscopico che individuava un quadro dubbio di neoformazione papillare della vescica, è stato l’evento che ha innescato una fenomenologia clinica grave e progressiva che ha condotto a morte la paziente che non aveva nessuna neoplasia vescicale.

La articolata disamina degli atti clinici, ci ha consentito di rilevare che qualche giorno prima dell’inizio delle perdite ematiche e del bruciore, la poveretta aveva subito una frattura ischio pubica, era portatrice di una fistola ed aveva un assetto coagulativo alterato per la presenza di piastrinopenia.

È stato accertato dalla magistratura (con adeguata probabilità scientifica) che causa quella frattura si era formato un coagulo ematico adeso alla parete e che non è stato considerato il numero basso di piastrine predittivo di rischio emorragico. Pertanto, il procedimento si è concluso in favore dei nostri assistiti; infatti, se fosse stata eseguita una ecografia vescicale all’atto del ricovero e prima della turv, la neoformazione non sarebbe stata più individuata mutando l’iter clinico del caso, invece, si procedette senza alcuna specifica conferma per imaging, esponendo la paziente ad un rischio anestesiologico elevato che innescò la catena causale fino al decesso”.

Il 65enne, G.R., aveva vinto la sua battaglia contro il cancro del colon. Un anno dopo l’ultima chemio, gli esami strumentali non rilevarono alcuna ripresa di malattia e ne’ altri organi furono interessati. Dunque, la moglie e i tre figli ancora giovani, potevano ben sperare per il futuro del loro amato. Purtroppo, sei mesi più tardi, un restringimento del moncone colico, costrinse G.R. a recarsi nuovamente presso il nosocomio ove era stato operato. Lì, i sanitari, rinunciando scientemente all’esecuzione di esami meno rischiosi per il paziente, portatore di un restringimento dell’intestino, gli praticarono una colonscopia. Già durante l’esame, il paziente avvertì un forte dolore.

Dolori che diventarono via via sempre più ingravescenti. Solo sette ore la fine dell’esame endoscopico, i sanitari finalmente decisero di effettuargli una tac che rilevò la lesione dell’intestino provocata durante l’esame. A nulla valse l’intervento chirurgico riparatore effettuato a distanza di altre 2 ore. Il paziente spirò in sala operatoria.

L'accurata analisi di tutta la documentazione sanitaria, anche quella relativa al trattamento della neoplasia, ha consentito, allo staff medico di dalla tua parte, di accertare, che in primis la colonscopia tradizionale non era indicata per la conformazione del moncone che era quasi invalicabile e poi, la complicanza insorta durante la colonscopia è stata gestita male e con notevole ritardo. Un tempestivo intervento esplorativo avrebbe rilevato la lesione che anch’essa tempestivamente suturata consentendo al povero G.R. di vivere ancora molti anni.

Dopo alcuni anni di confronti giudiziari e medico-legali la famiglia, seppur per equivalente, ha ottenuto giustizia”

La giovane mamma, A.P., Aveva portato a termine la sua prima gravidanza senza nessuna complicazione. Qualche giorno prima la presunta data del parto, la partoriente, avvertendo dolore e delle perdite, decise di recarsi presso il pronto soccorso dell’ospedale di zona.

Ivi ricoverata, nonostante i dolori lancinanti, la giovane venne sottoposta a taglio cesareo urgente ed indifferibile solo 2 giorni dopo il ricovero e venne alla luce il piccolo M. Che fu immediatamente trasferito in tin. Purtroppo, la grave ipossia intra-partum, aveva arrecato al piccolo nascituro (nato in liquido melmoso) gravi danni neurologici inemendabili, sia al sistema nervoso centrale che a quello periferico.

Ma perché ostinarsi tanto nell’attesa di un parto naturale? Naturalmente, il personale sanitario, nulla riferì ai neo genitori.

Il collegio medico formato dalla tua parte, ha consentito di accertare che tutti i ctg, comunemente chiamati tracciati, erano tutti scarsamente reattivi.

Era quindi necessario procedere senza indugi al taglio cesareo urgente già all’atto del ricovero così da interrompere quel nesso causale da cui sarebbero poi derivati i gravi danni al piccolo.

L’importante ristoro economico ricevuto dai genitori, non potrà mai restituire a questa famigliola la serenità e la gioia tanto desiderata per la nascita del loro primogenito, ma vi è anche la consapevolezza di un futuro difficile per il loro piccolo”